Storie di frontiera

Un confine da immaginare

Il concetto di frontiera abbraccia un largo ventaglio di significati. Nella sua accezione più moderna, il termine indica la linea che separa due entità statuali. Tracciata su una carta o trasferita sul terreno dai cippi di confine, la frontiera traduce un accordo, spesso siglato al termine di un conflitto armato, fra due potenze confinanti. Altri accordi e altre guerre potranno successivamente modificarne il percorso a tavolino. Infatti, i criteri in base ai quali la frontiera viene disegnata sono stabiliti attraverso discussioni e argomenti che hanno più a che fare con questioni di opportunismo e di strategia piuttosto che con la realtà fisica del territorio. Pertanto, anche se si cerca di farla passare per una linea naturale, non c’è niente di più convenzionale di una frontiera! Nelle Alpi del Sud, e più precisamente nel territorio che oggi è occupato dai due Parchi, il problema di tracciare un confine inizia con il passaggio della Contea di Nizza alla Francia, nel 1860...

La frontiera, un male necessario ?

L’idea di frontiera, cara ai sedentari, è invece sconosciuta alle popolazioni nomadi. Anche l’Impero Romano ha potuto accontentarsi a lungo di un semplice limes (una zona, più che una linea, di contatto e di scambio fra cives e barbari, dai contorni piuttosto fluidi), fino al momento in cui la pressione delle tribù nomadi, nel IV secolo, non è diventata una minaccia tale da dover essere contenuta da una linea di accampamenti e di fortificazioni. Non si può dire che si trattasse di una frontiera nel significato moderno del termine: le transazioni e i passaggi attraverso il confine erano mantenuti ed era una prassi comune che le autorità romane facessero ricorso a tribù barbare per ripopolare i territori disabitati (la Savoia, per esempio) o che scegliessero di far ricorso a soldati e funzionari scelti tra le fila dei barbari.

Durante il Basso Impero e nell’Alto Medioevo le frontiere (dell’Impero prima, di imperi, regni e feudi in seguito) non erano ermetiche, impenetrabili. Infatti è piuttosto intorno ai territori delle città e alla loro periferia che viene regolato il transito delle persone e delle cose. Di dimensioni più ridotte, un sistema incardinato sulle città è più facile da gestire. In questo periodo, i centri urbani acquisiscono ed esercitano diverse prerogative di governo territoriale (riscossione delle tasse, amministrazione della giustizia, gestione delle scorte di cereali, elezione dei magistrati, manutenzione della rete viaria e idraulica, organizzazione dei divertimenti pubblici e delle cerimonie di culto, …). Di fronte all’afflusso di masse di contadini senza terra provenienti dalle campagne e sotto la minaccia continua di razzie e saccheggi, mentre l’Impero diventa sempre più ingovernabile, le città affidano al capo della comunità cristiana (il vescovo, per lo più di nobile estrazione) il compito di gestire le risorse locali e il territorio stesso, che in questo modo si rende sempre più autonomo dal debole potere centrale.

Nelle campagne e nelle regioni di montagna, almeno quelle meno colpite dall’esodo verso le città, un movimento analogo conduce le comunità ad affidare il potere a un condottiero militare e ai suoi uomini. L’incarico è permanente: il comandante e il suo seguito sono mantenuti grazie ai contributi che vengono loro destinati. Nasce così un primo nucleo a base territoriale, all’origine del sistema feudale. Quest’ultimo si struttura intorno all’istituto giuridico fondato sul rapporto diretto fra il signore e il vassallo: il signore concede un territorio al vassallo in cambio di fedeltà e sostegno economico e militare. Ben presto il riconoscimento dei diritti del vassallo sul feudo e sui suoi abitanti diventa ereditario: a poco a poco vengono così a crearsi dei confini territoriali, piuttosto che delle frontiere vere e proprie, che delimitano spazi spesso non coesi.

Città, feudatari, abbazie: ciascuno organizza e amplia i propri possedimenti mirando ad accrescere le proprie risorse a spese degli altri. Vengono condotte delle vaste campagne di disboscamento e dissodamento, nascono nuovi villaggi alle dipendenze del signore che ne ha promosso la fondazione e che si trova così nella condizione di poter esercitare il proprio potere su una serie di enclavi isolate le une dalle altre.

La piramide che rappresenta la società feudale si fonda, almeno teoricamente, su una sorta di assenso ascendente: ogni livello, dal manovale all’imperatore, riconosce al livello sociale immediatamente superiore la legittimità dell’esercizio dell’autorità sui subordinati. Il potere sovrano dovrebbe così essere controllato dalla sua base, per evitare il rischio che si arroghi prerogative assolutistiche su territori che non sono di sua competenza. La realtà è ovviamente ben diversa. Proprio sull’arco alpino, oltre che nei comuni italiani, si fanno strada infatti i primi movimenti organizzati di contestazione del sistema feudale. La Confederazione elvetica nasce alla fine del XIII secolo dalla volontà di tre (in seguito quattro) cantoni di unirsi per gestire in autonomia le risorse ricavate dallo sfruttamento del commercio sulla strada del San Gottardo. Il conte della Maurienne, da parte sua, aveva avviato, già a partire del XI secolo, un’abile politica per riunire i territori estesi sui due versanti delle Alpi occidentali, dalla riva meridionale del Lago di Lemano fino a Nizza e al Mar Mediterraneo. Acquisizioni, eredità, alleanze matrimoniali, inclusioni di comunità indipendenti conducono i conti, poi duchi di Savoia a riunire sotto il loro governo delle province molto diverse fra loro, ma che nel loro insieme vanno a costituire uno dei primi esempi di entità statuale nel senso moderno del termine. Con una capitale (prima Chambéry, quindi Torino a partire dal 1563), un’amministrazione centralizzata e delle risorse garantite dalle entrate ricavate dai commerci fra la Pianura padana e il bacino del Rodano, “il portinaio delle Alpi” governa per più di cinque secoli una potenza centrale nel cuore dell’Europa.

È interessante notare come questo Stato si circondi di frontiere che vengono cartografate e segnalate a dovere, ma che non poggiano su alcun supporto fisico. È così poco “naturale” far passare il confine per la linea spartiacque, che lo stato savoiardo fonda il suo potere proprio sulla posizione a cavallo della linea di divisione delle acque!

Definire la frontiera

I conflitti che scuotono l’Europa fra Seicento e Settecento portano a successive contestazioni e rettifiche dei confini, in particolare quelli che separano i domini dei Savoia dal Regno di Francia. Nel corso del XVII secolo, quest’ultimo esercita un protettorato di fatto sulla Savoia, pur affermandone pubblicamente e a gran voce l’indipendenza con la pubblicazione del famoso Theatrum statuum Sabaudiae nel 1687. Oltre a descrivere le città principali dello Stato sabaudo, ritratte nelle incisioni e descritte con dovizia di particolari, l’opera presenta delle tavole cartografiche precise e rivendica fieramente per i possedimenti di Casa Savoia lo statuto di potenza politica stretta fra frontiere rese sicure da fortificazioni al passo con i tempi.

Un quarto di secolo più tardi, il Trattato di Utrecht (1713) mette fine alla Guerra di successione spagnola. Dalla pace, la Francia guadagna la Valle dell’Ubaye e i territori nelle alte valli del Verdon e del Var. Il duca di Savoia, dal canto suo, ottiene qualche vantaggio territoriale in Piemonte, ma soprattutto ne ricava il Regno di Sicilia e il diritto di fregiarsi della corona e del titolo di re. Nel 1718, la Convenzione di Parigi opera qualche aggiustamento: la Francia rinuncia a Entraunes e a Saint-Martin e riceve il paese di Mas, nell’Estéron. Il 1720 porta un ulteriore scambio: la Sicilia in cambio della Sardegna: nasce così il Regno di Piemonte e Sardegna.

Nonostante i successivi “ritocchi”, la frontiera franco-sarda conserva nelle Alpi del Sud delle anomalie non da poco. Tutta una serie di sovrapposizioni, avamposti ed enclavi crea innumerevoli difficoltà alle autorità che si trovano a dover gestire il territorio. Il contrabbando prospera e il brigantaggio pure: le scorribande del famoso brigante Mandrino si spingono fino alla Contea di Nizza. Diplomatici e amministratori riescono a trovare un accordo per porre rimedio a questa situazione critica, sancito dal primo Trattato di Torino (24 marzo 1760), che propone una rettifica pacifica della frontiera attraverso lo scambio di alcuni territori. La nuova linea di confine, «figlia del doganiere piuttosto che del soldato», secondo la definizione di Michel Bottin, viene stabilita a metà del corso del Var e quindi dell’Estéron, prima di essere fissata sulla linea di cresta che separa le alte valli del Var e del Verdon. Questa razionalizzazione, in parte fondata su caratteristiche morfologiche del territorio (le valli, lo spartiacque), porta con sé tuttavia delle conseguenze impreviste. Infatti, per esempio, il comune di Saint-Léger-dans-la-Roudoule vede il proprio territorio amputato di buona parte delle risorse in termini di foreste e pascoli: le une e gli altri sono ormai trasferiti dal trattato in territorio francese, sulla riva destra del Var. Una linea di cippi viene collocata a segnalare la frontiera nel 1761, dal ponte di Roquestéron all’alta valle della Tinée.

Durante il periodo napoleonico, dal 1793 al 1815, questa frontiera viene soppressa per essere prontamente ristabilita con la Restaurazione: nel 1823 viene apposta una nuova serie di cippi, che va dalla foce del Var alla Rocca dei Tre Vescovi.

Esattamente un secolo più tardi (il 24 marzo 1860), viene firmato a Torino un nuovo Trattato, che trasferisce all’Impero francese di Napoleone III la Contea di Nizza e la Savoia, mentre Vittorio Emanuele II viene incoronato primo Re d’Italia. Nei dintorni dei paesi di Pigna e Dolceacqua, una serie di Comuni viene riunita alla Liguria, mentre oltre la linea di cresta, da Collalunga (Valle della Tinée) al Monte Saccarello (Val Roya), Vittorio Emanuele II conserva i cosiddetti “territori di caccia”, che includono i comuni di Tenda e Briga, il villaggio di Mollières e vasti pascoli nelle valli Tinée, Valdeblore e Vésubie. Per l’ennesima volta, il preteso “principio della frontiera naturale” viene così disatteso: il neonato Stato Italiano riesce a ottenere una sorta di fascia cuscinetto al di là dello spartiacque per proteggersi da un eventuale attacco francese, potenzialmente capace di minacciare la prima capitale del regno, Torino.

Tuttavia, nonostante le tensioni anche gravi fra i due paesi, a più riprese sull’orlo del conflitto armato, e per quanto sia la Francia che l’Italia si fossero già dotate di un notevole apparato militare (fortificazioni e truppe addestrate a combattere in montagna), la problematica frontiera era destinata a durare a lungo: un palliativo sarà la zona franca di fatto dell’alta Valle Roya, esente dalle tasse delle esportazioni di prodotti verso la Francia.

L’ascesa al potere di Mussolini rompe l’equilibrio fra i due Stati: lo Stato fascista priva i Francesi dei diritti sui loro territori in Italia, su cui devono pagare delle forti imposte, mentre il genio militare italiano vi costruisce piste, ridotte e casematte.

A partire dal 1943, quando le sorti del conflitto iniziano a volgere a sfavore della Germania nazista e dell’alleato italiano, a Londra e quindi nell’Africa settentrionale, i rappresentanti della Francia occupata iniziano a formulare le rivendicazioni che saranno presentate ufficialmente durante la stesura dei trattati di pace, a guerra finita. I “territori di caccia” rientrano nelle terre di cui la Francia chiede la restituzione, in particolare si costituisce un Comitato di riannessione per i comuni di Tenda e Briga, particolarmente attivo a Nizza e in Costa Azzurra.

Difficili negoziati

Le trattative tra Francia e Italia cominciano a partire dall’armistizio del 1945 e termineranno soltanto nel febbraio del 1947, con la firma del Trattato di Parigi, chiamato a regolare i rapporti e i confini fra i due paesi.

Per quanto riguarda le Alpi del Sud, i diplomatici finiscono per accordarsi sulla “frontiera naturale” costituita dalla linea di spartiacque. Tenda, Briga, Mollières e i territori dei sei Comuni prima in Italia vengono abbastanza rapidamente riconosciuti come francesi.

Georges Bidault, che conduce le trattative per i francesi, segue le istruzioni del generale De Gaulle, secondo le quali le rivendicazioni non devono mirare soltanto a recuperare territori e infrastrutture militari, ma anche a punire simbolicamente l’Italia della “pugnalata alle spalle” sferrata alla Francia nel 1940. Ma questo atteggiamento punitivo viene appoggiato in ambito internazionale soltanto dall’Unione Sovietica di Stalin e Molotov, a sua volta vittima dell’attacco delle truppe italiane alleate dell’esercito di invasione tedesco. Inoltre, sul versante interno, l’antigollismo di buona parte della destra tradizionale si esprime nel sostegno agli irriducibili, che rifiutano ogni compromesso e avanzano rivendicazioni revanchiste ancora più penalizzanti per l’Italia. Questo atteggiamento oltranzista finisce tuttavia per ridurre il margine di manovra dei diplomatici francesi impegnati nelle trattative. L’azione dei servizi segreti complica ulteriormente le cose, con il tentativo di sollevare la popolazione locale delle terre contese. In questo quadro così delicato e complesso, viene infatti ventilata l’ipotesi di fare della Val Roya, dal Colle di Tenda al mare, una zona franca o persino una regione autonoma, a condizione che i valligiani esprimano un parere favorevole. Tutti i consigli comunali si esprimono all’istante in modo positivo, ma l’ipotesi non verrà mai realizzata.

L’Italia gioca come carta a suo favore sul tavolo delle trattative il rovesciamento del regime fascista a partire dal 1943, avvenuto senza l’intervento di forze esterne, e l’impegno da quel momento in avanti al fianco degli Alleati nella continuazione del conflitto, in particolare in estremo oriente. I governi occidentali, fortemente sostenuti da gruppi di potere italo-americani, da un lato guardano con sospetto al governo del generale de Gaulle in Francia e dall’altro temono che l’Italia cada nell’area di influenza comunista. Per questi motivi non hanno interesse a sostenere le rivendicazioni francesi: molti preferiscono non pronunciarsi, come dimostra l’assenza di parecchie firme sul documento conclusivo.

Anche dopo la firma del Trattato, alcune controversie relative alla frontiera franco-italiana restano aperte, come la “chambertomania denunciata da Georges Bidault. Lo Stato Maggiore francese esigeva di impossessarsi del forte dello Chaberton, edificato a strapiombo sulla città di Briançon, ma il passaggio del forte alla Francia avrebbe implicato la divisione del paesino di Clavières, ai piedi del Colle del Monginevro: i cippi di confine definitivi non saranno collocati che nel 1975.

Inoltre la Francia chiedeva il risarcimento dei danni di guerra, attraverso l’acquisizione degli impianti idroelettrici dell’alta Valle Roya e del tunnel ferroviario elicoidale sotto il monte Graziano, i cui due ingressi si trovavano in territorio francese, mentre la maggior parte dello sviluppo si svolgeva sotto il suolo italiano. È così che i due paesi di Piena (alta e bassa) e di Libri, che non avevano conosciuto altro governo che quello della Repubblica di Genova, della monarchia sarda e del Regno d’Italia, di colpo si sono ritrovati francesi senza averlo richiesto e nemmeno previsto. Corre l’anno 1962, lo stesso della collocazione dei cippi di confine a nord-est del monte Chaberton.

Nonostante i negoziati si siano soffermati a lungo sui dettagli, alla fine il Trattato viene ratificato dai due parlamenti. Per porre rimedio ad alcune delle assurdità più clamorose, Pietro Quaroni e Georges Bidault trovano un ulteriore accordo, nel luglio 1948, su qualche punto di minore importanza. Ma il Parlamento francese insorge, respingendo attraverso il riesame della Commissione legislativa dell’Assemblea un accordo che, in quanto relativo a modifiche del territorio nazionale rientrava nelle loro specifiche competenze.

Infine, merita una menzione l’affaire Collalunga/Collelongue. Al momento della stesura del Trattato di Parigi, i negoziatori e i redattori, che lavoravano a tavolino sul confine fra la Valle Stura e la Val Tinée senza conoscere la realtà del territorio, commettono un errore che sarà causa di grandi controversie. Nel testo dell’accordo precisano infatti le coordinate geodetiche dei punti della linea di cresta principale, mentre sulla carta piazzano la frontiera su una cresta vicina, che costituisce la linea spartiacque. A partire da quel momento, Colla Lunga/Colle Longue si trova “incastrata” fra due linee di frontiera su cui nessuno dei due Stati è disposto a fare marcia indietro. I Francesi perché attribuiscono più valore al testo del Trattato rispetto alla cartografia e gli Italiani perché rivendicano il valore del principio di divisione delle acque, e le acque dei piccoli laghi proprio a ridosso della cresta andavano ad alimentare il bacino del torrente Stura, sul lato italiano. L’incompatibilità era evidente: il trattato si contraddiceva! Ma in questi casi vale la regola secondo cui il testo scritto prevale sulla cartografia: ancora una volta il principio della divisione delle acque viene così disatteso!!

A partire dal 1948, l’accordo Bidault-Quaroni rettifica l’errore in questo senso e risolve altri piccoli disaccordi fra i due paesi. Ma i parlamentari francesi rifiutano di ratificare l’accordo e le discussioni si protraggono per quarant’anni.

È soltanto nel luglio 1989 che un accordo internazionale stabilisce che Colla Lunga/Colle Longue, con i suoi 200 ettari di rocce e pascoli e i tre piccoli laghi le cui acque defluiscono sul versante italiano, appartiene al comune francese di Isola, con grande disappunto dell’opinione pubblica piemontese, ben espresso dalla stampa dell’epoca, che annuncia: “La Granda (soprannome della Provincia di Cuneo) è diventata più piccola!”. Oggi così i Laghi di Colla Lunga/Colle Longue appartengono al comune di Isola, anche se si trovano a est della linea di divisione delle acque.

Un’Europa senza frontiere, un Parco transfrontaliero

Questi ultimi anni hanno visto l’elaborazione dei trattati europei: l’ultimo episodio nella storia della frontiera porta così la data del 31 dicembre 1992, quando il Trattato di Shengen ha decretato l’abolizione formale delle frontiere in Europa. Da allora il concetto di frontiera ha subito un'ultima (per ora) metamorfosi: le frontiere hanno dismesso il loro ruolo di controllo sul transito delle merci e delle persone. Nel frattempo sono arrivati e arrivano sempre più stimoli a connettere i due versanti delle Alpi coinvolti dai Parchi delle Alpi Marittime e del Mercantour. Le due aree protette, gemellate fino dal 1987, a partire dalla fine degli anni Novanta, grazie anche all’impulso delle politiche comunitarie che finanziano in via preferenziale i territori transfrontalieri, hanno rafforzato il rapporto che le lega: oggi si può dire che di fatto esiste già un Parco internazionale Alpi Marittime Mercantour, dal momento che le riunioni tra gli staff dei due enti sono continue, e le principali linee di intervento vengono puntualmente concordate.

Sito realizzato nell'ambito del PIT "Spazio transfrontaliero Marittime Mercantour" Programma ALCOTRA 2007-2013 e rivisto e aggiornato con il progetto: