Partire, una necessità antica e attuale
Doversi muovere/1
Nel corso dei secoli, i colli alpini sullo spartiacque principale hanno visto passare da un versante all’altro delle Alpi sud-occidentali centinaia di persone. Già a partire dal Medioevo, c’era chi si spostava stagionalmente attraverso le montagne e chi non avrebbe più fatto ritorno. Ma solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, gli abitanti delle terre alte delle Marittime e del Mercantour sarebbero scesi in massa verso la pianura e la costa, molti avrebbero attraversato il mare per tentare la fortuna in altri continenti. Si spostavano per trovare lavoro o per seguire una professione, partivano all’avventura in cerca di fortuna, si imbarcavano per sfuggire alla povertà.
In cammino attraverso le Alpi del Sud
Le Alpi sono terre di gente in movimento: gli spostamenti stagionali e temporanei sono stati una costante e un elemento di basilare importanza nell’economia alpina almeno a partire dal Medioevo. Per secoli dalla montagna si partiva per integrare con gli introiti delle attività più diverse i bilanci delle economie locali. L’alfabetizzazione era estesa, i contatti transalpini frequenti, i mercati aperti. Se numerosi lavoratori non qualificati sfuggivano alla povertà, altri montanari intraprendenti partivano per migliorare le proprie condizioni di vita e qualcuno, infine, inseguiva una carriera nomade da commerciante, da artista o da artigiano. Bisogna essere dunque cauti nel postulare legami diretti e meccanici tra povertà ambientale e povertà degli abitanti: non si partiva sempre e solo perché era impossibile restare nel proprio paese. Né la mobilità umana deve essere considerata come un’anomalia rispetto a una condizione “fisiologica” di sedentarietà legata alla coltivazione della terra: si tratta invece di una condizione antica e normale per molti territori alpini. Di più: per quanto riguarda il territorio transfrontaliero Marittime Mercantour, se occorresse indicarne i segni particolari su un’ipotetica carta d’identità, il tratto più caratteristico sarebbe precisamente quello di essere un luogo di passaggio. È da circa dieci secoli, infatti, che le persone si avventurano su queste montagne: si può dire a buon diritto che la permeabilità alla mobilità umana sia una delle costanti più evidenti delle Alpi sud-occidentali nel corso dei secoli.
La mobilità umana è un fenomeno molto diversificato e che varia nel tempo per durata, destinazioni, motivazioni: ci si spostava e ci si sposta tuttora spinti da necessità differenti verso mete che cambiano e lo si fa ieri come oggi per una stagione o per sempre. Il termine mobilità include dunque tanto gli spostamenti dovuti alla transumanza, quanto l’emigrazione stagionale di prossimità, che l’emigrazione molto spesso definitiva verso terre lontane, talvolta verso altri continenti. Muoversi si dice in molti modi, eccone alcuni.
I pastori, i nomadi delle montagne
I pastori sono per eccellenza i nomadi delle montagne. Si sono sempre spostati in cerca di erba per sfamare le mandrie e le greggi. D’inverno verso la pianura, d’estate negli alpeggi in quota. La prima forma originale di emigrazione temporanea è proprio quella legata alla transumanza. Tracce di questo tipo di attività, la più elementare - e, probabilmente, anche la più antica - forma di occupazione del territorio alpino, si trovano nella Valle delle Meraviglie, in alta Valle Roya. L’origine dei pastori che la praticavano non è conosciuta.
Bisogna tuttavia arrivare al XIII secolo per osservare i primi veri flussi migratori legati alla transumanza. Alla fine del XVI secolo, i pastori di Vinadio e di Sambuco attraversano i colli per recarsi al pascolo nelle valli della Vésubie e di Valdeblore. Questa pratica, indotta dalla salita all’alpeggio, univa profondamente le comunità sui due versanti. Lo testimoniano anche i registri dei comuni su entrambi i versanti, dove possiamo trovare cognomi italiani migrati oltralpe e cognomi francesi che hanno fatto il percorso inverso.
Gli spostamenti stagionali non sono delle vere e proprie migrazioni: i pastori che transumano restano cittadini appartenenti pienamente alla comunità d’origine, anche se il loro mestiere li costringe a seguire gli animali in alpeggio d’estate e attraverso i pascoli della pianura durante l’inverno. La pratica della transumanza fotografa in maniera esemplare il movimento e l’incontro: in alpeggio convivono infatti pastori di diverse provenienze. La prossimità delle zone di pascolo, la solidarietà in qualche modo obbligata fra le persone, la condivisione dello stile di vita e degli usi alpini sono tutti elementi che contribuiscono a tessere dei legami stretti fra gli abitanti delle differenti valli. Ma il principale elemento storico d’unione è la comune e secolare appartenenza ai possedimenti di Casa Savoia. Infatti il regime unico politico, fiscale e amministrativo ha facilitato la formazione di una comunità di vita che si traduce in relazioni anche profonde, siglate da matrimoni e accordi d’affari. Se i contatti fra le persone si stabiliscono durante il periodo dell’alpeggio estivo, i rapporti si consolidano in occasione degli eventi che riuniscono gli abitanti di più valli intorno a un santuario o a una celebrazione comuni. È in quest’ottica che si possono leggere i pellegrinaggi tra le valli, alcuni dei quali sono tuttora vivi, quelli al Santuario di Sant’Anna di Vinadio (fra le valli Tinée e Stura) e al Santuario di Madonna di Finestra (fra le valli Vésubie e Gesso).
Nemmeno la frontiera, che si è attestata fra il 1860 e il 1947 sulla linea dello spartiacque, ha potuto interrompere pratiche di passaggio e di scambio antiche di centinaia di anni. Persino nei momenti di crisi politica e di tensioni militari, persone e merci hanno continuato a attraversare il confine in clandestinità.
Mestieri per partire
Molti erano i mestieri che spingevano a spostarsi periodicamente dal monte al piano. Così, per esempio, non solo i pastori, ma anche i contadini erano costretti ad abbandonare le loro dimore nella cattiva stagione. Infatti l’inverno, per l’agricoltore di montagna, è un periodo di disoccupazione: dopo il raccolto, l’aratura e la semina non resta più nulla da fare. All’inattività forzata si associa un secondo fattore di criticità: la difficoltà di nutrire bocche in eccesso. Per poter coltivare le magre parcelle di terreno in quota, dove non si possono nemmeno utilizzare macchine o animali per i lavori nei campi, occorre una manodopera numerosa, che d’inverno diventa superflua, Le braccia in eccesso sono quindi votate all’emigrazione temporanea verso regioni che offrono possibilità di impiego durante la stagione fredda e che vengono abbandonate all’inizio della primavera. Talvolta si ricava di più dai proventi dell’emigrazione stagionale che non dalla coltivazione della terra. In una certa misura, i ritmi della montagna si sposano con quelli della pianura, dove per secoli le maglie larghe del tessuto economico offrono innumerevoli opportunità per mestieri itineranti, in bilico tra commercio, artigianato, lavoro a giornata, vagabondaggio e mendicità.
In questo contesto la Riviera si presenta come una meta ideale. Le principali coltivazioni della costa richiedono manodopera per il raccolto e per la potatura proprio durante l’inverno: è il caso delle olive, degli agrumi e di diverse specie di fiori impiegati nell’industria dei profumi. A partire dal momento della vendemmia (ottobre), fino alla fioritura delle violette (aprile), il contadino che scende dalle montagne trova ad aspettarlo un lavoro quasi garantito. Ci sono poi altri posti che attirano la manodopera montanara, abbondante, poco specializzata, ma abituata al lavoro duro e alla fatica: per esempio le saline delle piane del Var (Hyères) e della Camargue (Aigues-Mortes).
Documenti del 1702 attestano che a Aisone, in Valle Stura, dove vivevano allora poco più di 800 abitanti, quasi una cinquantina di persone abbandonavano il paese all’inizio di settembre per farvi ritorno a maggio, andando «per il Piemonte mendicando».
Ma i più partono per lavorare: uomini e donne lasciano valli e paesi per cercar lavoro altrove. Dalle montagne, all’inizio dell’Ottocento, scendevano, tra gli altri, sellai, arrotini, bottai, calzolai, sarti, vetrai, impagliatori di sedie, straccivendoli, ombrellai, tessitori e filatrici.
In tempi più recenti, tra Ottocento e Novecento, l’emigrazione soprattutto dalle valli piemontesi si fa più massiccia e meno qualificata. Gli uomini “si affittano” per i bisogni dell’allevamento del bestiame, dell’agricoltura, della selvicoltura o dell’edilizia: «tutti i ponti della valle Roja li hanno fatti i ruas-cin (i roaschini)», racconta per esempio un pastore di Roaschia. Le donne, invece, vanno “a servizio” presso famiglie e alberghi oppure a raccogliere fiori in Provenza.
I mimosà di Entracque: una storia recente
Fino agli anni Cinquanta del Novecento, l’emigrazione stagionale a Entracque si articola in due momenti. Il primo gruppo a lasciare il paese è composto prevalentemente da uomini: le donne rimangono a casa a occuparsi dei figli e degli animali. Alcuni partono appena terminata la raccolta e la trebbiatura della segale, altri li seguono un po’ più tardi, dopo la raccolta delle patate.
Gli emigranti entracquesi non sono «professionisti dell’emigrazione» in possesso di specifiche competenze come i cavié e gli acciugai della Val Maira: sono per lo più «emigranti non specializzati», che si spostano sul versante francese pronti a adattarsi a tutto, purché ci sia lavoro.
Gli entracquesi trovano impiego principalmente nell’agricoltura: uno dei lavori più consueti è la vendemmia, cui fanno seguito l’aratura del terreno e la potatura delle viti.
Ma è soprattutto verso la metà di gennaio che Entracque si spopola del tutto: le ragazze e i giovani partono an trop, “a branchi”, verso la Francia per la raccolta della mimosà. I lavori più faticosi spettano agli uomini, addetti al taglio dei rami. Le donne raccolgono poi i rami in fasci, che la sera vengono scaricati negli atelier, stanzoni riscaldati a vapore dove la regolazione di temperatura e umidità permette di programmare la fioritura. Di sera e durante la notte si fa la veglia preparando i mazzi per il mercato, facendo bene attenzione a non rovinare i delicati fiori di mimosa destinati alle piazze di Mandelieu, Grasse e Barcelonnette o al bateau che salpa due volte al mese dal porto di Cannes carico di fiori gialli.
Gli entracquesi all’estero sono così numerosi che «si ricostruiva all’estero una parte della propria famiglia, formavano un gruppo numeroso e affiatato, sentendosi a proprio agio anche in Francia», racconta un’anziana entracquese. La meta più frequentata dall’emigrazione stagionale è il circondario di Nizza, e in particolare i tre centri di Marsiglia, Cannes e Nizza città, dove si vengono a creare vere e proprie colonie di entracquesi, alcuni dei quali già trasferitisi stabilmente in Francia. Altre destinazioni preferenziali sono Saint Raphaël, Fréjus, Gassin, Mougin, Saint Tropez, Marsiglia, Cassis, Cogolin, Grasse e Tolone.
Le vie degli emigranti stagionali possono essere quelle legali, attraverso il Colle di Tenda, oppure clandestine, per il Colle di Finestre. Quali che siano i percorsi e le destinazioni, la scelta di emigrare dall’autunno alla primavera è spesso obbligata per chi ha un lavoro legato alla terra: bisogna guadagnarsi da vivere anche quando questa è sommersa sotto metri di neve e la vita in paese si ferma. La stagione della mimosà permetteva di fare una vita più agiata, di avere qualcosa di più dell’indispensabile. Ad esempio consentiva alle ragazze di avere un corredo migliore e agli uomini di aggiustarsi la casa per potersi sposare.
Commercianti, artisti, fenomeni da baraccone
Come le attività pastorali, così anche gli scambi commerciali hanno spinto gli uomini a percorrere i sentieri che attraversano le montagne. I primi flussi commerciali sufficientemente documentati risalgono al Medioevo. Si tratta delle cosiddette “vie del sale”, le quali non erano destinate esclusivamente al traffico di questo prodotto, per quanto prezioso esso fosse, ma servivano alle comunità alpine per scambiare i pochi altri prodotti in eccedenza commercializzabili. È il caso del formaggio, o delle stoffe, che si possono trovare in ogni momento dell’anno nelle diverse fiere del Piemonte, della Liguria, della Contea di Nizza o di Provenza. Questi mercati periodici giocavano un ruolo fondamentale nell’economia locale e si svolgevano secondo un preciso calendario.
Anche altre attività comportano lo spostamento delle genti dei due versanti. Nel mondo dell’arte, per esempio, pittori come Baleison o Canavesio, che si sono spostati a lungo attraverso le Alpi Marittime, hanno realizzato le loro opere in molti paesi alpini. Lo stesso è accaduto con altri artisti, maestri del legno o della pietra, che hanno percorso i sentieri di entrambi i lati delle Alpi sud-occidentali. Sulle loro tracce si sono mossi apprendisti come il giovane Jean Baptiste Raiberti, di Saint-Martin-Vésubie, che si trasferì a Milano per due anni interi per studiare presso un noto maestro e al suo rientro nel villaggio natale aprì un laboratorio farmaceutico.
Verso la Francia si sono mossi, infine, una moltitudine di artigiani e commercianti italiani -costruttori e suonatori d’organo, venditori ambulanti, vetrai, lustrascarpe, spazzacamini...- una massa numerosa ed eterogenea che ha alimentato oltralpe lo stereotipo dell’immigrato italiano: il petit italien sporco, ladro, bugiardo, spaccone, fannullone, vile e disposto a vendersi per poco... un discutibile modello di virtù!
Emigranti inconfondibilmente alpini erano i giovani “ammaestratori di marmotte” della Valle Stura che, per qualche soldo, si esibivano con i loro animali in fiere e villaggi. Per lo più le marmotte ammaestrate alla meno peggio e gli strumenti musicali accordati come capita sono affidati a dei bambini: la musica serve a accompagnare i movimenti delle marmotte, e la scenetta nel suo insieme serve a muovere a curiosità e a compassione i borghesi di città, stimolandoli a metter mano al portafoglio. Questo quadretto pittoresco era entrato a far parte del paesaggio urbano invernale a tal punto che oggi lo si trova riprodotto nei presepi provenzali.
Uno degli strumenti più usati dai piccoli ammaestratori di marmotte era la ghironda (vieille à roue in francese, sansougha in provenzale). Le corde fatte vibrare dal movimento di una ruota di legno sono pizzicate da una tastiera, che fornisce la melodia, rinforzata da altre corde che suonano a vuoto. La ghironda è uno strumento medievale, come rivelano diversi affreschi nelle Alpi meridionali. Un tempo diffuso su tutto il continente europeo, lo strumento si è progressivamente rifugiato nelle zone montuose, dove soltanto alcuni laboratori di modeste dimensioni hanno ne hanno continuato la produzione, A Péone (valle del Var), e Allos (valle del Verdon), sono stati identificati due di questi laboratori storici, da cui provengono varie ghironde, costruite con grazia e perizia e conservate con cura.
All’utilizzo stagionale e, probabilmente, abbastanza approssimativo, della ghironda, si associava un impiego più artistico. Così il paese di Lottulo in Val Maira, ha dato i natali nell’Ottocento a un suonatore di ghironda diventato una celebrità: Giovanni Conte, detto Briga. Giovanni aveva uno strumento di superba fattura che portava la firma di Louvet (un artigiano parigino del 1700) per la costruzione e di Pimpard (un artigiano di Jenzat, nell’Allier, attivo nel 1800) per il restauro. Due dei più famosi produttori francesi di ghironda si trovano così uniti nelle mani di un musicista itinerante. Il quadernetto che Giovanni faceva validare dalle autorità comunali per ottenere il permesso di esibirsi nei luoghi pubblici ha permesso di ricostruire le sue « tournées ». Eccolo quindi attraversare tutta la Francia, talvolta per due o tre anni di seguito. Gli capitava spesso di essere richiesto per accompagnare dei matrimoni o per animare una festa di paese, occasioni in cui si mostrava nella sua tenuta da uomo-orchestra, con un cappello a sonagli calcato sulla testa e una grancassa sulla schiena.
Emigranti ugualmente inconfondibili, ma per motivi diversi, sono stati i due famosi “giganti Ugo” di Vinadio, Battista e Paolo Antonio, protagonisti loro malgrado di una storia fuori dal comune che li ha resi il simbolo degli emigranti alpini. Boscaioli a Saint-Martin-Vésubie, diventano ben presto “fenomeni da baraccone” esibiti su tutte le piazze del mondo per via della loro straordinaria statura: pare che misurassero quasi 2 metri e 40 centimetri (per oltre 200 chili di peso). Circondati da una effimera e discutibile popolarità, Battista e Paolo sono morti entrambi giovani e in miseria, il primo muore a New York all’età di 40 anni, il secondo a 26 anni, a Alfortville (comune di Maisons-Alfort), vicino a Parigi. Ai loro tempi, hanno avuto una fama straordinaria grazie alle decine di cartoline illustrate che li ritraevano. Le esibizioni di persone “anomale”, “fenomenali” sono entrate a far parte integrante dell’immaginario alpino. A partire dalla fine del Settecento, per esempio, sono i “cretini” e i gozzuti a impressionare i lettori delle relazioni di viaggio stese dai primi visitatori delle Alpi. Grazie alla diffusione della fotografia, gli uomini e le donne “mostruosi” delle Alpi iniziano a viaggiare ritratti cartoline, mentre nei baracconi delle fiere degli “esemplari” in carne e ossa vengono esposti allo stupore, più o meno compassionevole, dei curiosi.
L’emigrazione stagionale oltralpe dalle valli piemontesi, stagionale, variegata, poco qualificata, è stata una costante a partire dal passaggio di Nizza alla Francia, nel 1861, e si è esaurita del tutto solo nel secondo dopoguerra.
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