L’emigrazione definitiva e il turismo alpino
Doversi muovere/2
A partire dall’Ottocento, comincia a manifestarsi in modo più evidente e massiccio l’emigrazione su lunghe distanze. È l’inizio del declino economico della montagna. Nella Contea di Nizza, soltanto la Valle Roya, attraverso cui transita la maggior parte del commercio transalpino, continua a prosperare. Qualcosa si rompe nell’equilibrio tra monte e piano, fra la popolazione e le risorse disponibili nei paesi alpini. L’industria non risale le valli, l’agricoltura è poco redditizia, l’apporto della pastorizia, principale fonte di reddito, insufficiente. Le popolazioni delle valli piemontesi, così come quelle nizzarde, sono costrette a trovare nuove attività remunerative al di fuori delle comunità d’origine.
Biglietti di sola andata
Verso la seconda metà del XIX secolo, l’emigrazione dalle valli diventa un fenomeno di massa. Sul versante italiano, il fenomeno è generalizzato e tra il 1880 e il 1915 interessa tutte le campagne, impoverite dal crollo dei prezzi dei prodotti agricoli.
Molte famiglie sui due versanti sono costrette ad abbandonare i paesi d’origine per trasferirsi a centinaia, molto spesso anche a migliaia di chilometri di distanza. Certe destinazioni, come l’America (gli Stati Uniti e l’Argentina per i piemontesi, il Messico per le popolazioni dell’Ubaye) o l’Africa (l’Algeria, per gli abitanti della Roya o della Bévéra), diventano la terra promessa di molti emigranti. Molti tornano nella bella stagione per curare i campi di famiglia dopo aver faticato in inverno dall’altra parte dell’Atlantico. Questa pendolarità transoceanica finisce con la Prima guerra mondiale, con l’eccezione dell’Ubaye, dove l’emigrazione verso il Messico continua fino agli anni ’50 del Novecento.
Il Messico dei “Barcelonnettes”
Così come appare oggi, l’epopea dei “Barcelonnettes” è una storia che abbraccia due secoli e che continua a esercitare un fascino notevole.
Sembra che all’origine di questo movimento migratorio, nel Settecento, ci siano alcuni abitanti dell’Ubaye (allora nota come la “valle di Barcellonette”), espatriati durante l’inverno oltreoceano nella regione della Lousiana francese. Si erano stabiliti là per impiantarvi un commercio del quale avevano un’esperienza maturata nel corso di generazioni: il commercio delle tele, dei drappi e dei tessuti.
Iniziano così a fare affari con l’altra riva del Mississippi, sotto il controllo della Spagna, che ben presto acquisisce anche la Lousiana. Il commercio degli ubayen decolla e in breve tempo gli operosi valligiani iniziano a esercitare quasi un monopolio della distribuzione dei prodotti tessili inglesi e tedeschi destinati ai porti americani. Napoleone Bonaparte rientra in possesso degli immensi territori della Louisiana, che vende quasi subito ai giovani Stati Uniti (1803). Il sistema costruito dai “Barcelonnettes” non viene messo in discussione, ma oramai il loro piccolo impero è orientato prevalentemente verso i territori spagnoli. Una lunga serie di eventi bellici favorisce in seguito il fiorire del commercio delle tele e dei tessuti per i fabbisogno dei diversi eserciti, che necessitano di tende e di uniformi. L’indipendenza del Messico è seguita dalla conquista, da parte degli Stati Uniti, delle province settentrionali del paese, fra cui il Texas. Prendono quindi il via la conquista dell’Ovest e la corsa all’oro. Napoleone III approfitta della Guerra di Secessione per tentare un ritorno sul Nuovo Mondo, cercando di imporre al Messico l’imperatore Maximilien. Porfiro Diaz tiene le redini del paese per trent’anni, ma finisce per provocare la Rivoluzione messicana.
Nel contesto di un paese scosso da crisi ricorrenti, dalla guerra civile all’invasione straniera, i “Barcelonnettes” emigrati riescono a ritagliarsi un autentico impero industriale, commerciale e finanziario. I giovani ubayen, ben preparati al viaggio transatlantico dai corsi di spagnolo nelle scuole medie, sbarcano in un paese dove tutto è organizzato per accoglierli e per dar loro un lavoro in uno o nell’altro dei negozi moderni gestiti dagli ubayen, costruiti secondo il gusto delle grandi capitali europee. Gli emigrati hanno pensato a tutto: sono previsti anche servizi di assistenza medica e sociale, che saranno alla base dei futuri servizi assistenziali americani.
Alcuni “Barcelonnettes” riescono ad accumulare delle vere e proprie fortune. Di ritorno in Francia, si fanno costruire grandi ville al centro di parchi alberati, alla periferia del paese natio. Spesso ne costruiscono anche una seconda in Costa Azzurra, soprattutto nella regione di Cannes, dove passare un inverno più confortevole.
Questo movimento migratorio di ampiezza davvero considerevole è destinato a spegnersi dopo la Seconda guerra mondiale. Ancora oggi, tuttavia, profondi legami storici, culturali e affettivi continuano a unire la Valle dell’Ubaye e il Messico.
Quando la “Merica” parlava francese
Per molti emigranti italiani la Francia rappresenta un universo familiare, dove possono inserirsi in reti sociali ormai consolidate e dove, soprattutto, la terra costa di meno ed è più difficile trovare persone disposte a coltivarla. Così, a prezzo di enormi sforzi, un bracciante italiano poteva sperare con il tempo di diventare un piccolo proprietario oltre il confine. Negli anni Venti il dipartimento delle Alpes Maritimes accoglie il 20% degli emigranti italiani, quello del Var il 12%, e quello delle Bouches du Rhone il 10%. Nel 1927, sul quotidiano nazionale italiano La Stampa, si legge che «A stagioni, la colonia italiana del Varo, quella precisamente dei lavoratori agricoli o boscherecci, s’aumenta considerevolmente di emigranti temporanei. Nostri montanari, uomini e donne, gente della campagna, braccianti, si trasferiscono dal Piemonte nelle regioni francesi più prossime al confine, particolarmente nei dipartimenti delle Alpi Marittime e del Varo». Il ritratto stereotipato dell’emigrante italiano in fuga dalla miseria e pronto a tutto pur di fare fortuna è vero solo in parte e resta in ogni caso di gran lunga insufficiente, se si vuol rendere conto di un vasto movimento migratorio fondato su motivazioni e criteri complessi, che l’antropologia alpina ha distinto, descritto e analizzato.
Dei “passeurs” di professione aiutano famiglie intere, cariche di viveri e di bagagli, ad attraversare clandestinamente e senza rischio le Alpi. Col tempo questo fenomeno si intensifica: dapprima a causa delle tensioni politiche causate dal regime fascista italiano e infine con la guerra. Diventa un esodo di massa. Una buona parte dei migranti parte per tornare al paese in primavera: l’inizio dei lavori nei campi lo impone. Sul luogo di lavoro, la manodopera montanara svolge compiti poco qualificati, subalterni e privi di responsabilità. L’unico scopo della maggior parte degli stagionali è quello di tornare a casa con quel po’ di risparmi che permette di acquistare i beni impossibili da produrre.
Capita sovente che uno stesso villaggio, o uno stesso settore di una o dell’altra vallata, riforniscano di generazione in generazione uno stesso posto di lavoro o una stessa attività, che diventa così “monopolio” di un luogo, che ne conserva gelosamente il controllo. Un esempio? I muratori di Roaschia, che hanno costruito buona parte dei ponti della Valle Roya. Il vantaggio di una simile condizione è quello di avere un’occupazione garantita, sempre la stessa, di anno in anno. Il principale inconveniente risiede invece nella scarsità dei salari, molto bassi per paura che il datore di lavoro opti per dei dipendenti ancora meno esigenti, visto che la domanda di lavoro è abbondante.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, si apre un nuovo mercato alla migrazione stagionale: quello dei servizi alla clientela che sverna in Riviera. Il rapido sviluppo delle città di mare come luoghi di villeggiatura, in primo luogo quelle della Costa Azzurra, attira una folla di montanari che trovano lavoro negli alberghi, nei servizi di manutenzione, di intrattenimento, eccetera.
L’emigrazione stagionale può, in effetti, essere considerata come un ripiego privo di ambizioni e di futuro, oltre che ripetitivo. È una forma di impiego sottoposta ai capricci del clima e agli eventuali progressi meccanici che di anno in anno permettono ai datori di lavoro di ridurre il ricorso alla manodopera poco qualificata. L’impatto della migrazione invernale sull’economia delle vallate alpine, se non è trascurabile a livello domestico, ciò non di meno resta debole a livello generale, perché le quantità di capitali immessi sul mercato sono molto basse e quasi mai danno luogo a investimenti duraturi: tutti i risparmi vengono rapidamente investiti in beni di consumo, utili a rendere più confortevole la vita quotidiana. Anche gli eventuali investimenti sono limitati all’acquisto di terre o di immobili nel paese d’origine.
L’emigrazione stagionale perpetua fino alla Seconda guerra mondiale una pratica antica, che mantiene il fragile equilibrio dell’economia alpina in stretta dipendenza dall’apporto di risorse provenienti dall’esterno. Il movimento dal monte al piano sarà rimpiazzato da un moto perfettamente simmetrico con lo sviluppo dell’economia turistica che conduce i cittadini verso la montagna. La villeggiatura estiva e gli sport invernali rovesciano la direzione dei flussi: non sono più gli abitanti delle valli alpine che scendono in cerca di contante, ma sono i turisti della pianura che salgono a portarlo in montagna. Il risultato, curiosamente, rimane a lungo simile: i locali continuano a esercitare modeste attività nell’ambito dei servizi, per investire i proventi nella terra.
AAA Maestranze esperte cercansi
Un’ulteriore forma di emigrazione, temporanea o definitiva, ha coinvolto le popolazioni alpine. Trae la sua origine, in particolare sul versante piemontese, da due elementi principali. In primo luogo l’alto livello di istruzione popolare, accumulato anche durante le serate di veglia invernale, ottima palestra per le letture, per la scrittura e per il calcolo, armi intellettuali che forniscono un vantaggio ai giovani montanari rispetto ai coetanei della pianura e delle città. In secondo luogo, la montagna è in un certo senso la “scuola della pietra” : è nelle valli che si trovano operai eredi di una lunga tradizione nei lavori edili e nelle opere pubbliche. Da quando Torino diventa la capitale del ducato di Savoia (1563), il Piemonte si trasforma in un immenso cantiere. Le città si espandono, la rete delle Strade reali si sviluppa, vengono costruiti canali di irrigazione, chiese, palazzi e monumenti, fortificazioni, aree portuali: per oltre due secoli, un’abbondante manodopera è chiamata a realizzare i progetti di architetti e ingegneri. Quando i paesi confinanti, la Francia al primo posto, si lanciano in grandi programmi di organizzazione del territorio legati alla rivoluzione industriale e all’espansione coloniale, si rivolgono alle competenze degli artigiani, degli operai e dei manovali alpini. Ecco allora i cantonieri incaricati dal vertice della Ponts & Chaussées recarsi in Piemonte per reclutare minatori, lavoratori delle cave, intagliatori di pietre e muratori a cui forniscono un contratto di lavoro, un lasciapassare e il denaro necessario per raggiungere la Francia. Nella stessa ottica, gli appaltatori dei grandi lavori pubblici, come i canali o le ferrovie, sono autorizzati a superare la quota di stranieri impiegati: se è previsto un 10% di manodopera straniera, qualcuno raggiunge o supera il 90% del totale… Per la costruzione delle opere fortificate della linea Maginot, il Genio militare francese si rivolge agli operai italiani, anche se si tratta di costruire le difese in vista di un possibile attacco da parte del loro paese!
Fra gli emigranti, alcuni si riuniscono in squadre di specialisti che offrono le proprie competenze ai datori di lavoro. Proprio queste associazioni sono spesso all’origine di importanti società di lavori pubblici o di aziende di costruzioni molto attive e spesso molto quotate sul mercato. In questi casi, non se ne parla neanche di tornare in Italia: soltanto dei legami di parentela, riallacciati di quando i quando in occasione di vacanze, feste, matrimoni, funerali, permettono di conservare la memoria del paese d’origine.
Emigrare/émigrer: partire sui due versanti
I comportamenti demografici sono notevolmente diversi tra i due versanti delle Alpi del Sud così come tra i paesi delle medie e delle basse valli, rispetto quelli delle alte valli.
In bassa valle i paesi si spopolano, ma non vivono l’esodo di massa delle borgate delle alte valli, molte delle quali vengono abbandonate del tutto. Alla fine del XIX secolo, i paesi francesi non sono mai stati così popolati, ma ben presto conoscono un lento declino. Sul versante italiano, dagli anni Venti in poi il declino demografico è sempre più rapido massiccio, con una vera e propria emorragia di abitanti. In tutte le valli i grafici della popolazione crollano verso il basso (vedere figura), precipitano la natalità e la nuzialità, aumenta inesorabilmente il tasso di invecchiamento della popolazione residente.
La migrazione verso la Francia diventa in molti casi definitiva, in un processo che porta nell’arco di due-tre generazioni a popolare intere parti del sud-est francese di discendenti di immigrati cuneesi.
La creazione di strade che agevolano l’accesso alle valli, facilita inoltre i flussi migratori verso la Riviera o verso la pianura Padana.
Negli anni ’50, dopo l’ultima guerra, arrivano nuovi mestieri a portare via i ragazzi dai paesi, in molti casi per sempre: sono gli anni della ricostruzione e del boom economico e le industrie della pianura hanno bisogno di operai. Fare il pastore o l’agricoltore in montagna costa troppa fatica e paga poco. Anche il piccolo artigianato ha delle difficoltà a trovare sbocchi commerciali. È il tramonto degli antichi mestieri legati alla terra, è la fine di un mondo alpino. Un peccato? No, una trasformazione, forse avvenuta in modo troppo frettoloso e brutale.
L’emigrazione non è ancora attualmente un fenomeno completamente esaurito nelle valli piemontesi. Talvolta le nuove famiglie preferiscono stabilirsi in pianura o nelle zone della bassa valle, più vicine al luogo di lavoro. Tuttavia si osserva oggi, su entrambi i versanti, un movimento in controtendenza. Molti “nuovi montanari” lasciano la costa e la città per le valli, in cerca di una migliore qualità della vita.
Lo sviluppo del turismo
Questo aspetto dell’economia alpina trova a buon diritto la sua collocazione in questa scheda dedicata all’emigrazione. Il turismo infatti, come abbiamo visto, è speculare rispetto ai movimenti migratori alpini e non è che un’inversione della direzione dei flussi finanziari e di persone fra le città della pianura e i paesi della montagna.
A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento per arrivare fino ai giorni nostri, si tratta di attirare in montagna con gli sport e le attività invernali i turisti abituati a svernare in Riviera e di prolungarne il più possibile la permanenza. L’esordio del turismo invernale nelle Alpi è debitore delle attività e delle attrezzature militari: le truppe alpine che stazionano in quota imparano a muoversi sulla neve grazie a maestri norvegesi appositamente assunti per insegnare agli alpini a sciare, a saltare, a pattinare sulla neve. Ben presto vengono organizzate delle gare, con il concorso attivo dei Club Alpini, che vi convogliano i loro associati. Le autorità politiche non possono che incoraggiare queste nuove attività sportive in montagna, che cadono a pennello per dissimulare lo sforzo bellico nascosto dietro alle competizioni. La maggior parte delle prime stazioni sciistiche nascono, non a caso, intorno a campi di addestramento militare (è il caso di Beuil-Les Launes, Peira Cava-Turini, Limone-Tre Amis).
Lo sviluppo del turismo estivo si verifica grazie alla volontà degli esercenti locali di aumentare la durata della stagione commerciale e il volume degli scambi. In effetti, un numero sempre maggiore di villeggianti benestanti inizia ad abbandonare la Costa Azzurra nel mese di maggio, a vantaggio di un soggiorno in montagna, conteso fra Svizzera e Savoia. Bisogna fare in modo di raggiungere le mete d’élite e di dimostrare che le Alpi meridionali non hanno niente da invidiare alle località turistiche più prestigiose.
Si spiegano così il battesimo di “Svizzera di Nizza” ricevuto dall’alta valle della Vésubie, un hotel “Righi” costruito sulle alture di Monte-Carlo, una gara di canottaggio organizzata sul Lago di Rabouons (valle della Tinée) e l’inizio dell’esplorazione alpinistica delle Alpi del Sud, con la conquista di cime “inaccessibili” come quella del Corno Stella, salito da Victor de Cessole nel 1903, o quella delle Aiguilles de Pélens (Valle del Var), raggiunta sempre dal conte nizzardo due anni più tardi. Sempre sullo stesso modello “elvetico”, nascono la “Svizzera Marittima” di Valdeblore e la “Piccola Svizzera Nizzarda” di Moulinet. Negli anni Ventti, gli aristocratici italiani, francesi e inglesi, vi soggiornano qualche settimana durante l’estate, imitati dalla borghesia della Costa Azzurra.
Sul versante italiano, decolla lo sci in Val Vermenagna, mentre la Valle Gesso viene scelta come meta di soggiorno da turisti molto...particolari: i re di casa Savoia, che ne saranno i principali sponsor e testimonial (per saperne di più: vedere Scheda 13_I Savoia in Valle Gesso).
Il flusso turistico, destinato a aumentare col trascorrere dei decenni, avrà come conseguenza un aumento della costruzione di infrastrutture abitative, ricettive e sportive in quota. In molti casi si è trattato di realizzazioni discutibili a causa dell’impatto mal calcolato sull’ambiente alpino. Oggi si è tuttavia diffusa una nuova sensibilità verso il paesaggio montano, anche grazie al lavoro di sensibilizzazione portato avanti nel tempo dai due Parchi.
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